Nel 1988 l’UNEP e l’Organizzazione Metereologica Mondiale (WMO) hanno creato l’Intergovernmental Panel on Climate Change il quale rappresenta un foro scientifico formato dall’ONU con lo scopo di studiare il surriscaldamento globale.
“L’Intergovernmental Panel on Climate Change” stima che le attività umane abbiano causato un riscaldamento globale di circa 1,0 °C rispetto ai livelli preindustriali, con un intervallo probabile tra 0,8 e 1,2°C. E’probabile che il riscaldamento globale raggiungerà 1,5°C tra il 2030 e il 2052 se continua ad aumentare al tasso attuale. Si stima che con un riscaldamento globale di 1,5°C rispetto ai livelli preindustriali si verificherebbero numerosi cambiamenti regionali nel clima, tra i quali l’innalzamento dei picchi di temperatura in molte regioni, l’aumento della frequenza, dell’intensità e dell’entità delle precipitazioni in molte regioni, un aumento nell’intensità e nella frequenza di siccità in alcune regioni.
Il rapporto evidenzia il preoccupante stato di salute dei ghiacciai, non solo polari, ma anche alle più basse latitudini, la cui massa complessiva potrà diminuire fino all’80% da qui al 2100. A questo si accompagna anche una riduzione della copertura nevosa che, nel ventennio 2081-2100, potrebbe ridursi fino al 90%”. “Le conseguenze spazierebbero da una maggiore difficoltà di approvvigionamento di acqua potabile fino alle attività ricreative invernali che potrebbero essere fortemente compromesse, in caso di un riscaldamento superiore ai 2°C.
Segue l’IPCC, Su 105.000 specie studiate, nelle proiezioni con un riscaldamento globale di 1,5°C, il 6% degli insetti, l’8% dei vegetali e il 4% dei vertebrati perdono più di metà delle loro aree geografiche di dislocazione climatica, rispetto al 18% degli insetti, al 16% dei vegetali e all’8% di vertebrati con un riscaldamento globale di 2°C. Gli impatti associati ad altri rischi per la biodiversità, come gli incendi boschivi e la diffusione di specie invasive, sono minori a 1,5°C rispetto a 2°C di riscaldamento globale. Nelle proiezioni, approssimativamente il 4% della superficie terrestre subisce una trasformazione da un tipo a un altro di ecosistema a 1°C di riscaldamento globale, rispetto al 13% a 2°. Questo indica che, secondo le proiezioni, l’area a rischio è all’incirca del 50% inferiore a 1,5°C rispetto a 2°C. La tundra alle alte latitudini e le foreste boreali sono particolarmente a rischio degrado e riduzione dell’estensione a causa dei cambiamenti climatici, con una vegetazione di arbusti legnosi che già sconfina nella tundra processo che avanzerà con un ulteriore riscaldamento. Limitare il riscaldamento globale a 1,5°C invece che a 2°C nelle proiezioni, evita l’ulteriore fusione di un’area di permafrost di un’estensione compresa tra 1,5 e 2,5 milioni di chilometri quadrati nei secoli a venire. (ipcc)
Nelle proiezioni, la limitazione del riscaldamento globale a 1,5°C rispetto a 2°C riduce l’aumento della temperatura degli oceani, come anche l’aumento associato dell’acidità e la diminuzione dei loro livelli di ossigeno. Di conseguenza, una proiezione della limitazione del riscaldamento globale a 1,5°C riduce i rischi per la biodiversità, la pesca e gli ecosistemi marini, delle loro funzioni e servizi per gli esseri umani, come mostrato dai recenti cambiamenti nel ghiaccio marino dell’Artico e negli ecosistemi delle barriere coralline nelle acque calde. C’è una confidenza alta che la probabilità che l’Oceano Artico sia privo di ghiacci marini durante l’estate sarà considerevolmente inferiore in presenza di un riscaldamento globale di 1,5°C rispetto a 2°C. Con 1,5°C di riscaldamento globale, le proiezioni indicano che in Artico ci potrà essere un’estate al secolo libera dai ghiacci marini. Questa probabilità aumenta almeno fino a una volta per decennio con un riscaldamento globale di 2°C. Gli effetti di uno sforamento della temperatura sono reversibili per la calotta di ghiaccio marino dell’Artico su scale temporali di decenni. Nelle proiezioni, un riscaldamento globale di 1,5°C produce uno spostamento delle aree in cui vivono molte specie marine a latitudini più alte e un aumento dei danni per molti ecosistemi. Il riscaldamento determina anche la perdita di risorse costiere e la riduzione della produttività delle zone di pesca e dell’acquacoltura (specialmente alle basse latitudini). Nelle proiezioni, i rischi degli impatti da cambiamento climatico sono maggiori a 2°C rispetto a quelli prodotti da un riscaldamento globale di 1,5°. Nelle proiezioni a 1,5°C le barriere coralline, per esempio, si riducono di un ulteriore 70–90% con una riduzione maggiore (>99%) in presenza di un aumento di temperatura di 2°C). Le barriere coralline sono l’habitat con la più grande diversità biologica del mondo, è la culla della vita per un quarto di tutte le specie marine. A livello mondiale la metà di tutte le barriere coralline è già andata perduta, e gli scienziati prevedono che entro il 2050 questa cifra salirà al 90%. Oltre all’aumento della temperatura i coralli sono minacciati dalle microplastiche le quali vengono assorbite anche dai piccoli organismi e accrescono il tasso di mortalità dei coralli. Circa l’80% dei rifiuti dispersi in mare è costituito da materie plastiche, il WWF ha stimato che ogni hanno circa 8 milioni di tonnellate di plastica vengono scaricate in mare, scenario apocalittico se si considera che una bottiglia di PET impiega 400 anni a degradarsi.
Continua l’IPCC “Il rischio di perdita irreversibile di ecosistemi marini e costieri aumenta col riscaldamento globale, specialmente di 2°C. Il livello di acidificazione degli oceani, dovuto all’aumento delle concentrazioni di CO2 associate al riscaldamento globale di
1,5°C, amplifica nelle proiezioni gli effetti negativi del riscaldamento e ancora di più a 2°C, colpendo la crescita, lo sviluppo, la calcificazione, la sopravvivenza, e quindi
l’abbondanza di una vasta gamma di specie, per esempio, da quelle algali a quelle ittiche. Gli impatti dei cambiamenti climatici sugli oceani stanno facendo aumentare i rischi per pesca e acquacoltura attraverso gli impatti su fisiologia, sopravvivenza, habitat, riproduzione, incidenza di malattie e rischio di specie invasive, ma nelle proiezioni sono inferiori a 1,5°C di riscaldamento globale che a 2°C.
Per guidare la transizione verso un’economia sostenibile le Nazione Unite hanno sviluppato l’Agenda per lo Sviluppo Sostenibile 2030 che contiene i 17 SDGs.
Gli SDGs sono stati sviluppati attraverso un processo bottom-up e consultivo e intendono essere olistici e di natura universale nel senso che comprendono obiettivi sociali, economici e ambientali. Gli SDGs sono stati discussi formalmente per la prima volta alle Nazioni Unite durante una conferenza sullo sviluppo sostenibile tenuta a Rio de Janeiro nel giugno 2012. Durante la conferenza gli stati membri dell’ONU hanno accettato di stabilire un processo intergovernativo per sviluppare una serie di obiettivi orientati all’azione, concisi e facili da comunicare per aiutare a guidare l’attuazione dell’agenda orientata allo sviluppo sostenibile. Il risultato della conferenza tenutasi a Rio è un documento: “The Future We Want”. Un gruppo di lavoro aperto (Open Working Group) di 30 membri dell’assemblea generale è stato incaricato di preparare una proposta sugli SDGs, nonché un elenco concreto di obiettivi e indicatori misurabili per garantire che i progressi compiuti rispetto agli SDGs possano essere monitorati. Nel settembre 2015, l’assemblea generale delle Nazioni Unite e i 193 paesi che rappresenta hanno adottato l’Agenda for Sustainable Development, la quale è sintetizzata in 17 goals e 169 targets: